martedì 27 agosto 2013

Street Photography - Algeri, Mosca, Parigi



Street Photography

di Simonetta Sandri

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Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Robert Doisneau
Andando a zonzo per le strade del mondo, sola con i miei pensieri, prendendo centinaia di aerei che hanno attraversato mille misteriosi e diversi cieli, solcando mari e sedendomi rannicchiata su treni ad alta velocità o su lenti ma pittoreschi regionali, spesso mi sono ritrovata ad osservare le persone, immaginando le loro storie, le loro emozioni, le loro vite. Spesso mi domandavo se partivano, se arrivavano, se qualcuno li aspettava, se dietro una finestra illuminata che scorgevo dai finestrini di vagoni vocianti vi era una tavola apparecchiata o una candela solitaria dove nessuno aspettava nessuno. Mi chiedevo se quelle vite pensavano, godevano, piangevano, ridevano, amavano, trepidavano, sognavano, soffrivano o se, in fondo, erano felici.
Osservare la gente per strada, di spalle, spesso da lontano, aiuta ad immaginare i loro sogni, i nostri sogni. A volte vorremmo condividere con forza pensieri che corrono liberi verso l’orizzonte. In certi momenti basta osservare con amore le persone e sfiorare i loro pensieri per condividerli: sogni di libertà di uomini e di donne di ogni etnia e religione, voglia di scappare via lontano, di vivere un amore difficile ed impossibile, non vincolato da culture, tradizioni e limiti.

Tipaza, Algeria, coppia al'orizzonte, bello guardare lontano, © Simonetta Sandri

Tipaza, Algeria, le donne sognano, © Simonetta Sandri
Ecco allora che, passeggiando per le affollate strade di Mosca, aspettando la settimana in cui ad attendermi a casa ci sarebbe stato qualcuno, non un qualcuno qualunque ma Lui, mi viene un’idea. Quella di ripensare alla strada percorsa e di rivedere cosa ho percepito anche attraverso le mie fotografie e le immagini di coloro che, ben più illuminati e noti di me, della strada avevano saputo cogliere la vera essenza ed il reale profumo. Domenica scorsa, quindi, vicino alla fermata della rossa metropolitana Lubyanka, entravo alla libreria Globus, luogo di ritrovo di ogni curioso lettore che cerchi ispirazione o che semplicemente voglia tuffarsi nel profumo unico della carta stampata e delle incisioni antiche appese alle pareti. Al piano terra si trova lo spazio magico della fotografia - libri per lo più in russo ma c’è anche qualcosa in inglese -, luogo per me davvero ristoratore e mistico, oltre che fonte di genuina e quasi inaspettata felicità, tanti piccoli tunnel illuminati dove cercare come arrivare a toccare e sfiorare il sole che brilla al di fuori della caverna di Platone.
Conoscevo la Street Photography ed uno dei suo fondatori, Robert Doisneau, per averne visto un’esposizione a Parigi ed a Milano, ma volevo saperne di più. Chi di voi non ricorda la foto in bianco e nero del Bacio davanti all'Hôtel de Ville, famosa se pur scattata nel 1950, di questo genio dell’anima che aveva trascorso la sua vita nella periferia parigina di Montrouge, fotografando strade e volti sempre diversi? Sono famose le sue foto di bambini vocianti, i cui giochi scherzosi rimangono alla fine sempre seri e degni di grande rispetto. Anche se il padre della Street Photography è considerato Eugene Atget, che lavorò a Parigi dal 1890 fino agli anni venti, e sulla cui vita resta un’aura di mistero, mi ricordavo bene di Doisneau e di alcune foto che io avevo fatto a Parigi nel 2000, oltre ad altre successive dell’Algeria e ad alcune scattate recentemente nella stessa Mosca. Forse, senza saperlo e ovviamente con modestia, avevo seguito anche io quella corrente, appassionandomi alla strada. Decidevo quindi di approfondire, per parlarvene e condividere con voi questo modo di fotografare che sicuramente molti di voi praticano più o meno inconsciamente.
L’idea magari mi era in realtà venuta osservando un vecchio signore dalla candida barba che leggeva nel verde Guardino Botanico di Mosca e che avevo immortalato da lontano.

Mosca Giardino Botanico, leggendo siamo giovani, © Simonetta Sandri
Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no? Si può sempre andare oltre, oltre – non si finisce mai. … La strada è vita. Stiamo (ri)leggendo alcuni passi di Sulla Strada, di Kerouac. Vero. La strada è imprevedibile e vitale. Passatemi il termine un po’ forte e forse non del tutto appropriato, essa può essere straordinariamente ed eccezionalmente eccitante. 
Di fronte a quello che mi piace definire il carnevale della strada si può rimanere senza parole.
Si incrociano venditori di ogni cosa, pattinatori, donne vestite come diavoli o angeli leggiadri, muratori arrampicati come ragni, pompieri, carpentieri, spazzini, suonatori, cantautori, gente comune seduta a parlare, tutti con una forte voglia di libertà di essere di esistere, di vivere, respirare, pensare e non pensare, parlare, discutere, litigare, far pace e poi ancora di correre, mangiare, bere, sognare, volare. Si sorride anche ad una statua che guarda verso il cielo, come vorresti fare tu, con il naso curiosamente all’insù.
                                                                             

Mosca Parco Sculture, guardando verso il cielo, © Simonetta Sandri
Ma cos’è allora la Street Photography? Credo che non sia facile ricondurre tale arte ad una definizione ma per semplificare, si potrebbe dire che si tratta di un genere fotografico che riprende situazioni reali e spontanee in luoghi pubblici al fine di evidenziare in maniera artistica alcuni aspetti della società, dove il termine strada si riferisce ad un luogo generico in cui sia visibile l’attività dell’uomo e le sue interazioni sociali. Può trattarsi quindi di un ambiente, un luogo alieno dalle persone, una situazione particolare. Personalmente, preferisco la riflessione del fotografo dell’agenzia Magnum, Bruce Gilden, quando dice che, “If you can smell the street by looking at the photo, it’s a street photograph”. Il potere quindi di riuscire a far “odorare la strada”, di buttarla pesantemente nel vostro quotidiano con un’immagine, rimane, a mio avviso, il valore aggiunto di un’azione che altrimenti chiunque, oggi, con i mezzi digitali disponibili, potrebbe facilmente realizzare. Ci vuole anima, sentimento, pathos nello scattare una bella immagine. Non è facile riuscire a trovare un momento di sincronizzazione fra elementi non correlati fra loro, catturare momenti significativi di espressioni o gesti, di attitudini e pensieri, in una sorta di risposta al mondo quasi viscerale di chi sta cogliendo l’attimo nell’immagine. Diventa difficile capire se il tuo scatto ha queste caratteristiche. Ma si prova a condividerlo per vedere se odora, come per me riesce a fare questo riposo parigino di un guerriero che fantastica su un passato glorioso.


Parigi, Champs Elysees, il riposo del guerriero della luce, © Simonetta Sandri
O come forse riesce a fare anche questo cappelluto signore moscovita di spalle che sembra riflettere…. pensando al mio amore magari, quasi quasi, lo dipingo sui muri…                           

Mosca Parco Sculture, pensando al mio amore, lo dipingo sui muri, © Simonetta Sandri
Ci era sicuramente riuscita Vivian Maier, incredibile bambinaia-fotografa nata a New York nel 1926 e morta a Chicago nel 2009, una donna che silenziosamente aveva creato stupendi ritratti che documentavano la vita di uomini, donne, bambini e anziani, di tutte le classi sociali, raccolti lungo le strade di Chicago. Sempre sola e taciturna, Vivian trascorreva i giorni liberi passeggiando per le strade solo con una fotocamera Rolleiflex 6x6. John Maloof, l’agente immobiliare appassionato di fotografia che l’ha scoperta, subito dopo la morte della Maier, aveva iniziato la propria ricerca su di essa. Nei contenitori messi all’asta, a lei appartenuti ed acquistati per poche centinaia di dollari, vi aveva trovato oltre 40.000 negativi dei quali 15.000 ancora da sviluppare. Impressionato per il materiale scoperto, John decise di far conoscere l’opera dell’autrice pubblicando le fotografie della misteriosa e silenziosa bambinaia-fotografa rimasta nascosta per tutta la vita.
Volevo farvi partecipi di questa meravigliosa storia di strada, scoperta per caso, volevo dirvelo.
Con questa chiudo.
Dalle sponde del Nord Africa ai parchi fioriti della Russia, passando per le panchine di Parigi e di un giocoliere libero dorato, ho voluto condividere con voi momenti e colori, prendendo per mano tante storie umane che ci chiedevano di unirci a momenti di felicità e di voglia di volare insieme. Non ho la pretesa di voler essere un grande fotografo di strada ma volevo percorrere con voi un piccolo tratto di questo cammino. Perché anche tenendosi per mano, dipingendo alle spalle di un parco e di una chiesa ortodossa dalle cupole scintillanti si resta giovani e leggeri e si può disegnare il proprio destino, con forte tratto e decisione.


    Mosca, Kolomenskoe, anche dipingendo si resta giovani, © Simonetta Sandri
Consiglio la lettura di S. Howarth, S. McLaren, Street Photograhy Now, Thames & Hudson, 2010, o il sito dedicato a Vivien Maier, http://www.vivianmaierprints.com/, dove si trova anche un estratto del libro dedicato alle sue fotografie.

Copyright © by Simonetta Sandri

sabato 24 agosto 2013

Gianni Morandi: Jacopone


L'opera perduta
di William Molducci

L'opera musicale Jacopone del 1973 é la rivisitazione in chiave moderna della figura del beato Jacopone da Todi, il francescano laico che si oppose a Papa Bonifacio VIII (passato alla storia per lo schiaffo di Anagni), considerato uno dei più importanti poeti ed autori di laudi religiose italiane del Medioevo. L'opera in due tempi è stata scritta da Antonio Lattanzi, Gianni Lo Scalzo e Ruggero Miti.
Nel 1973, tentando di restare al passo coi tempi, Gianni Morandi interpreta il protagonista dello spettacolo teatrale Jacopone, in una sorta di opera-pop, format molto in voga in quell'epoca. Si trattava di uno spettacolo provocatorio per quei tempi, con un palcoscenico dove interagivano contemporaneamente in una sorta di Babilonia dei generi, personaggi quali il beato, Papa Bonifacio VIII, Superman, Santa Lucia, una coniglietta, Barbarella (interpretata da Paola Tedesco), Alice, San Francesco e l'immancabile capitalista. Nonostante furono rappresentate ben 183 repliche, lo spettacolo non fu quello che si può definire un successo. Come confidato in un'intervista rilasciata al giornalista Gianni Minà, dopo i problemi avuti con Jacopone, Morandi cercò di ritornare in teatro con un'opera dal titolo provvisorio di L'uccello di carta, un progetto affidato alla scrittura di Giorgio Albertazzi e Franciosa, che però non fu mai realizzato. La vicenda narrava di un ragazzo di borgata, che sogna di evadere dalla sua triste realtà, senza riuscire a librarsi in aria, come per appunto un uccello di carta.
La co-protagonista del musical Jacopone è stata Paola Pitagora (Vanna), che partecipò anche alla registrazione del disco edito dalla RCA. Le musiche sono state realizzate da autori quali Ruggero Cini, Dario Farina, Mauro Lusini (quello di C'era un ragazzo...) e Adriano Monteduro, mentre i testi portano la firma di Franco Migliacci, paroliere e produttore storico di Morandi.



Fotografia di scena dell'opera Jacopone, realizzata da Roberto Villa

Gli anni settanta

Negli anni settanta Gianni Morandi entra in un inevitabile periodo di declino, dovuto al cambiamento dei tempi e all'esplosione di una cultura musicale e generale diversa dalla generazione precedente. In quegli anni stava nascendo un’altra musica, fatta di cantautori e canzoni politiche e lui con questa nuova musica non aveva nulla a che fare. Non mancarono i tentativi del cantante bolognese di adeguarsi al cambiamento, come per esempio con la canzone Al bar si muore o la partecipazione al film Le castagne sono buone, diretto da Pietro Germi, ma venne sopraffatto dal clima ideologico di quegli anni e considerato soltanto un'artista commerciale e tradizionale da rifiutare.
Durante il concerto del 5 luglio 1971 al Vigorelli di Milano (prima dell'esibizione dei Led Zeppelin), subisce contestazioni dal vivo ricevendo sul palco lanci d’ogni genere. Quella sera si stava svolgendo la tappa finale del Cantagiro, nota manifestazione canora dell'epoca, il tentativo di fare convivere i due mondi musicali opposti causò molti problemi, soprattutto di ordine pubblico.
La crisi professionale diventa anche una crisi di vendite e non viene risollevata dalla partecipazione al Festival di Sanremo 1972 con Vado a lavorare, canzone che si classifica al quarto posto, ma che risulterà essere un flop. Qualche mese prima aveva partecipato alla sua ultima Canzonissima, presentando il brano Il mondo cambierà, che per molto tempo sarà la sua ultima canzone ad avere un certo successo di vendite. In contemporanea con l'avvento dei cantautori la musica italiana non si riconosceva più nel Festival e artisti come Morandi e Massimo Ranieri, si ritrovarono improvvisamente senza il consueto seguito.


Fotografia di scena dell'opera Jacopone, realizzata da Roberto Villa

Il disco

Jacopone raccoglie 13 brani, con gli interventi di Emilio Bonucci e Graziano Giusti, oltre a quelli dei due protagonisti. I brani eseguiti da Morandi in qualità di solista sono: Pietà colomba mia, L'abbandono, Prendi Me e Vidi che un cavallo, questi ultimi due proposti anche in un 45 giri. In coppia con Paola Pitagora, Morandi ha registrato le canzoni: Miserere mei e Così fu e sempre sarà, mentre la brava attrice ha eseguito come solista Soul-strip e Quel lungo filo. Completano l'album le tracce Babilonia, Jacopone, Christian circus (strumentale) e Bonifax, che ben rendono l'atmosfera del musical. Da segnalare che fu pubblicato anche un secondo 45 giri, che comprendeva i brani Così fu e sempre sarà/Quel lungo filo.
Tra i musicisti che hanno partecipato alla registrazione dell'album segnaliamo i Festa Mobile (originari di Monopoli), il gruppo composto dai fratelli Giovanni e Francesco Boccuzzi (tastiere e basso), Renato Baldassarri, Alessio Alba (chitarre) e Maurizio Cobianchi (batteria). Nei crediti riportati sul disco sono citati semplicemente come autori della base ritmica. Per quanto riguarda l'esecuzione musicale dal vivo, durante le rappresentazioni teatrali, il compito fu affidato al gruppo dei Libra, ricompostosi per l'occasione, dopo un primo scioglimento, con Federico D'Andrea, Claudio Barbera (basso), Alessandro Centofanti (tastiere), Nicola Di Staso (chitarra) e David Walter (batteria). Da notare che dopo la conclusione delle repliche della rappresentazione teatrale, si unì a loro Dino Cappa, conosciuto anche come Dino Kappa, con cui Morandi realizzò il disco Old Parade, unica sua rivisitazione di successi degli anni '60.

Fotografia di scena dell'opera Jacopone, realizzata da Roberto Villa

Il singolo più conosciuto è senza dubbio Vidi che un cavallo, che valse a Morandi anche un certo numero di passaggi televisivi, tra cui alcune trasmissioni dedicate al progressive italiano, genere musicale imperante in quegli anni. La canzone si divide in due parti, nella prima viene idealizzata una sorta di giustizia sociale, nel trattamento da parte dell'uomo di tre esemplificazioni sotto forma di animale: cavallo, cane e colomba. Nella seconda parte del brano, diventa evidente che la giustizia sociale in realtà è solo convenienza, destinata a scomparire con il sorgere di difficoltà: “Vidi che un cavallo tirava un carro dietro di sé, vidi il suo padrone portargli il fieno giustizia c'è... Ma, ma pesante il carro il cavallo stanco e stramazzò e il suo padrone con il bastone lo massacrò...”.
Prendi me si basa su di un ritmo musicale incalzante, supportato da un testo dal contenuto inizialmente mistico: “Lui è in te adesso Lui è in me
Lui è in ognuno di noi Lui vive in noi Lui è in te adesso Lui è in me
...”, contrapposto da situazioni e problematiche di carattere terreno e forse un po' ingenue nella loro eterna attualità, se lette con gli occhi di oggi:... Lui non è come S. Cristoforo come l'autostrada mangia-macchine dove le lamiere si contorcono e famiglie intere bruciano... non è con Santa Barbara sugli incrociatori quando sparano nei paesi poveri dove gli ideali si consumano...”.
Paola Pitagora è l'attenta interprete di Quel lungo filo, il cui testo fu scritto da un ispirato Franco Migliacci: Quel lungo filo, che ti scorre tra le dita, che ti nasce in fondo al cuore vola su nell'infinito, no, non muore sai ...”, così come per la struggente L'abbandono, interpretata da Morandi: “Come stenta il sole a nascere stamane sembra che non voglia mai venire su e magari venisse giù perché questo è un giorno triste, questo è il giorno delle delusioni, l'uomo vive solo e non lo sa...”.
Terminiamo l'analisi di questa interessante e coraggiosa opera-pop degli anni settanta, assolutamente da riscoprire tramite iTunes o il CD venduto on-line, citando Pietà colomba mia* e Miserere mei, dai ritmi progressive tipici dell'epoca e impreziosite da una convincente e coinvolta interpretazione di Morandi, un modello interpretativo che ritroveremo nel successivo album intitolato Il mondo di frutta candita (1975), scritto per lui da Ivano Fossati e Oscar Prudente.

Fotografia di scena dell'opera Jacopone, realizzata da Roberto Villa

* “Le mura son crollate, pugna senza vita, Babele è già' caduta, sotto le macerie i topi crepano, ma chi nacque colomba le sue ali stenderà, in alto volerà, in alto volerà...”.


Si ringrazia Rosalba Trebian, curatrice del Fondo dedicato a Roberto Villa, per la collaborazione e la disponibilità per la pubblicazione delle fotografie realizzate dal grande fotografo, durante una delle rappresentazioni teatrali dell'opera Jacopone.

Tutte le foto di scena sono Copyright Roberto Villa.

Copyright © by William Molducci

sabato 17 agosto 2013

Sylvain Tesson


Sylvain Tesson o l'avventuriero parigino sulle rive del Bajkal
di Simonetta Sandri
Abbiamo colto l’interesse di molti lettori al virus del viaggio. Non lo vogliamo allora certo curare, perché come sappiamo è assolutamente incurabile, ma desidereremo cercare di capire insieme come vivere con esso.
Se allora volete specchiarvi nella luce delle acque di un lago immenso, profondo e lungo e correre a braccetto con la Natura nella fredda tundra siberiana, leggete e rileggete Sylvain Tesson. Tuffatevi, in particolare, nel suo ultimo Nelle Foreste Siberiane, edito da Sellerio.
Buttatevi a capofitto, senza pensare o riflettere, sulle sue pagine pergamenate e curiose.
Leggetelo con attenzione, se volete assaporare la bellezza del contatto solo con il vostro Io, quello più puro, con la vostra autentica essenza, con quanto siete veramente e con quello che respirate, con quanto credevate e credete ancora di essere. Di fronte agli spazi smisurati, abbandonati a sé stessi e con sé stessi, ci vogliono la forza ed il coraggio che solo i solitari possono avere. Forti unicamente dei propri pensieri, delle proprie sensazioni, della propria libertà di correre e di volare via, lontano. A volte tremendamente e terribilmente lontano.
Eremita, per sei lunghi e rigidi mesi, sul russo lago Bajkal, meraviglia naturale lunga settecento chilometri e larga ottanta, Tesson vi cerca l’ispirazione prima dei fatidici 40 anni. Quella che noi abbiamo trovato nella tundra russo-norvegese. 

Ritiratosi in una capanna di nemmeno dieci metri sulle rive del lago, all’estrema punta del Capo dei Cedri del Nord, nel 2010, in compagnia unicamente di un’accurata e nutrita selezione di libri (che sogno…), di cibi e di vivande, il giornalista e scrittore parigino opera quasi un miracolo, ricominciando a fare quello che ormai viene considerato un lusso dalla ricca e benestante società moderna: pensare e riflettere liberamente, nonché scrivere di getto quei pensieri leggeri ed avvolgenti su un umido e stropicciato taccuino che diventerà un libro da 250.000 copie vendute oltre che vincitore del famoso Prix Médicis francese.
Perché ci piace pensare che il vero scrittore usi ancora il taccuino intarsiato manoscritto.
Perché crediamo ancora che la Natura sia immensa e potente fonte d’ispirazione della scrittura più nobile e sincera. Perché si può fare pace col tempo, addomesticarlo, come dice lo stesso scrittore, con l’immobilità quasi totale e il fermarsi a pensare e a scrivere. Quasi una necessità, ormai. Un bisogno che credo molti di noi ormai sentano regolarmente.
Perché ci piacerebbe davvero tanto essere come Sylvain, che, colpito dal virus del viaggio, dopo tanto e lungo girovagare (quasi vent’anni di viaggi su e giù per il mondo, Russia inclusa, comprese le scalate delle cattedrali ed i giri del globo in bicicletta…), si ferma ad ascoltare l’infuriare della Natura, nella sua tempestosa solitudine e silenziosa immensità, a capire ed a capirsi, ad immaginare e ad immaginarsi, a sognare ed a sognarsi.
Perché per noi ha proprio ragione questo illuminato e curioso scrittore quando considera l’esperienza dell’immobilità sul Bajkal come la continuazione del viaggio con altri mezzi.

Sylvain si era definito come Goethe, un vero Wanderer, già nel suo Piccolo Trattato sull’Immensità del Mondo del 2005, dove evocava il viaggiatore senza alcun attaccamento materiale o legame, un uomo che non si aspetta nulla dal mondo ma che si accontenta di percorrerlo, di viaggiare, solitario, in ascolto solo dei bisogni del proprio corpo e senza attendersi nulla dal cammino preso energicamente in prestito. Un uomo capace di rispondere all’appello dell’esterno, solo con esso e con sé il stesso forte ed autonomo. Noi crediamo tuttavia che a quel mondo esterno si possa almeno chiedere di sorriderci, di non lasciarci soli, di accompagnarci con la sua luce e i suoi riflessi, magari con qualche bel romanzo, qualche favola, racconto o poesia nello zaino leggero. O magari con un bel disegno colorato o la foto di un fiordo norvegese.

Fra i libri che accompagnano lo scrittore nel suo ritiro pensoso e produttivo, vi sono l’Amante di Lady Chatterly, La Mia Africa, Foglie d’Erba, Robinson Crusoe, Walden, il De Rerum Natura, ma si uniscono anche Shakespeare, de Sade e Casanova, oltre ad Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenhauer ed Heidegger, poesie cinesi e romanzi polizieschi.
Il nostro scrittore la mattina legge, pensa, fuma, disegna, spacca la legna, spala la neve, scrive. E poi magari si riserva di pattinare sul ghiaccio, di pagaiare in kayak, di provare la sauna (la sua versione slava, la banya), di camminare in mezzo alla candida neve. Quasi La neve di Maxence Fermine, quando ricordiamo quanto leggevamo nei freddi pomeriggi d’inverno , ossia che “la neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve”.
Nelle Foreste Siberiane Tesson raccoglie pagine di giorni, sfondi, solitudini, stati d’animo, sentimenti, pensieri, riflessioni, panorami e di bio-compagni, come li chiama simpaticamente e intelligentemente Fulvio Ervas nel suo commento al libro, intitolato “nelle gelide foreste a servire la bellezza”, apostrofando gli orsi, le cince, le foche, i cani, i pesci-omul, che affollavano le difficili ma intense giornate dell’amico francese. Perché ormai lo consideriamo amico.
Spazio, silenzio, solitudine fertile, ritmo, spettacolo, confidenze alla e sulla carta, voglia di librarsi in aria nel cielo del nord, pace ed ancora pace. A volte disperazione ma poi fiducia e nuovamente fiducia.

Ricchezza, solitudine, assenza di qualsiasi legge che non sia quella della Natura. Freddo rigido ma anche tepore, il caldo dei pensieri liberi da ogni condizionamento in pace con sé stessi. Spazi vergini ed incontaminati, aliti di vento leggermente intorpiditi e ricoperti di brina. Esperimento di vagabondaggio interiore, lontano da viaggi fatti in superficie più che in profondità che contraddistingueva il primo Elogio dell’Energia Vagabonda.
Con l’ebbrezza del nulla intorno, un nulla che è tutto per chi ama e rispetta il diverso da sé, la realtà animata e indipendente che è il mondo naturale, dal sapore angelicamente divino.
Perché la noia non mi spaventa. Ci sono cose che fanno più male: il dolore di non condividere con la persona amata la bellezza dei momenti vissuti”, ci ricorda Tisson.
Condividere con la persona che amo, ecco, cosa che io sto facendo, anche con queste righe, e che vi invito a fare, lettori attenti e sensibili. Come fareste di fronte ad un tenero ed innocente fiore bianco pallido, quello che sfiorate all’orto Botanico di Mosca…

Copyright © by Simonetta Sandri