mercoledì 26 febbraio 2014

Milan Kundera, 
La festa dell'insignificanza

Milan Kundera, 
La festa dell'insignificanza, 
Adelphi
 p128
di Eleonora Bonoretti

Adelphi, nella sotto copertina:
«Gettare una luce sui problemi più seri e al tempo stesso non pronunciare una sola frase
seria, subire il fascino della realtà del mondo contemporaneo e al tempo stesso 
evitare ogni realismo, ecco La festa dell'insignificanza. Chi conosce i libri di 
Kundera sa che il desiderio di incorporare in un romanzo una goccia di "non serietà" 
non è cosa nuova per lui. Nell'Immortalità Goethe e Hemingway se ne vanno a 
spasso per diversi capitoli, chiacchierano, si divertono. Nella Lentezza, Vera, 
la moglie dell'autore, lo mette in guardia: "Mi hai detto tante volte che un giorno avresti 
scritto un romanzo in cui non ci sarebbe stata una sola parola seria... Ti avverto però: sta' attento". 
Ora, anziché fare attenzione, Kundera ha finalmente realizzato il suo vecchio 
sogno estetico – e La festa dell'insignificanza può essere considerato una
sintesi di tutta la sua opera. Una strana sintesi. Uno strano epilogo. 
Uno strano riso, ispirato dalla nostra epoca che è comica perché ha perduto
 ogni senso dell'umorismo. Che dire ancora? Nulla. Leggete!»


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Ho scoperto per la prima volta Milan Kundera, leggendo L'Immortalità ed è stato come un colpo di fulmine, un amore letterario intendiamoci, fatto delle emozioni dell'attesa di iniziare un nuovo racconto, del piacere di leggere una scrittura intensa, cinica e ironica e della malinconia che sempre si accompagna a ogni finale.
Ho acquistato La Festa dell'insignificanza, il giorno stesso in cui è uscito in libreria, ma la paura che finisse subito mi ha impedito di leggerlo e così, è rimasto lì per un pò, ad attendermi, insieme ai tanti libri per i quali mi ripeto "non è il momento giusto" (sono una di quelle che crede che esista un "momento", anzi "il momento" per ogni titolo); ma poi, è bastato un pomeriggio, uno di quelli in cui il tempo sembrava suggerire soltanto divano, coperta della nonna e caffè americano per leggerlo tutto, una sorsata e via, finito, qualche ora soltanto per ritrovarmi già nella nostalgia che accompagna ogni libro che termina.


Restano, come sempre accade per ogni incontro con Milan Kundera, tanti interrogativi, ma il dubbio più sfacciato e diretto è, ma cosa ho letto? Un romanzo? Un saggio? O una pièce teatrale? Non saprei rispondere, posso dire che rimane una profonda amarezza, una festa che finisce troppo presto, un sipario che cala velocemente, come in uno spettacolo a teatro e lascia lo spettatore a bocca aperta, con le mani che applaudono e gli occhi che cercano un bis. Lo scrittore si congeda, con un'ultima grande risata, ricordandoci una citazione di Hegel "Solo dall'alto dell'infinito buonumore, puoi osservare sotto di te l'eterna stupidità degli uomini e riderne".
Il palcoscenico di Milan Kundera è la Parigi moderna dei giorni nostri, i personaggi diventano le sue marionette, attori e comparse, ciò che noi tutti siamo. Il lettore entra ed esce dalla trama, in un alternanza surreale, tra digressioni storico-filosofiche e le vicende dei protagonisti, un andamento discontinuo, personaggi stravaganti, inattuali, semiseri, si susseguono, spostando l’attenzione dalle loro pecurialità individuali alle vicende che li uniscono. Dal singolo alla collettività, dal particolare alla Storia, una storia che non si sostituisce al romanzo ma che rimane sempre un eco, attraverso i Ricordi di Chruščëv e l’aneddoto delle ventiquattro pernici di Stalin. Leggerezza e pesantezza, anima e corpo, memoria e oblio, genitori e figli, dualismi sempre cari a Milan Kundera che ritornano in ogni racconto e così anche la Festa dell’insignificanza non viene risparmiata, passando dalle futili esperienze umane di patetici personaggi un po’ vanesi e dadaisti all’involontaria e feroce comicità del dittatore Stalin, ritratto in una parodia sulle origini di Kaliningrad, per dimostrare ancora una volta quanto l’uomo sia ben piccola cosa e di quanto tutto si perda in generazioni che non hanno memoria.
La Festa dell’insignificanza si apre con una riflessione sull’ombelico femminile, sfacciatamente esibito dalle ragazze a passeggio per le strade, una sfilata di ombelichi tutti uguali, il simbolo della ripetizione e della negazione di ogni individualità, condanna a cui tutti sembriamo destinati. L’erotismo è annientato da questo legame con la duplicazione, la sensualità finisce, l’umorismo emerge cinico su questa epoca, ma cosa resta? Resta l’insignificanza, la beffa estrema di uno scrittore rassegnato di fronte a un mondo che non può cambiare, ma scivolare verso l’oblio, è una resa forte: “l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla”. La chiave di tutto è il buonumore, riflessioni intense, angosce, drammi, sono affrontati con ironia, leggerezza e divertissement, nella rete dei rapporti umani, l’insignificanza non è il vuoto di significato, ma come lui stesso ci ricorda : “L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. E’ con noi ovunque e sempre. E’ presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in situazioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome”.

Copyright © by Eleonora Bonoretti



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